L’ O C C I D E N T E E L A S F I D A D E L D A E S H
di Antonio Venci
UN MOMENTO DI RIFLESSIONE PER CERCARE DI FARE UN PO’ D’ORDINE
SULLE FASI CHE SEGNANO LE “TURBOLENZE” CHE OGGI METTONO IN
CRISI LA STABILITA’ E QUINDI LA PACE DI QUESTA PARTE DEL MONDO
CHE VEDE NEL MEDITERRANEO IL BARICENTRO E LA CERNIERA DI
TUTTE LE TENSIONI COLLATERALI
I fatti cruenti che osserviamo in Medio Oriente e in Africa interrogano le nostre coscienze: come è possibile tanta sofferenza in quelle popolazione a opera dei fanatici del DAESH? Come hanno fatto i miliziani a espandere il proprio potere? Come possono esistere oggi codici di comportamento che consentono quel livello di violenza?
Le sfide del nostro tempo, nel campo della geopolitica, richiedono sforzi intellettuali e materiali considerevoli. In tal senso occorrerebbe individuare nuovi paradigmi capaci di configurare visioni e strategie appropriate a quelle sfide, per intervenire – se intervenire – e giungere a soluzione delle controversie per ristabilire la pace.
Il DAESH, ovvero il vagheggiato Stato Islamico di cui Abu Bakr al-Bagdadi vanta di esserne il califfo, sebbene contrastato dalla coalizione a guida statunitense, e più di recente dalla Russia e dall’Iran, tuttavia esiste e fa proselitismo, anche in Occidente.
Quindi guadagna nuove basi operative in Libia, dove si è espanso lungo la fascia costiera del Golfo della Sirte. Ma sono attive altre sigle di jiadisti, come il Fronte al-Nusra, sempre in Siria, Boko Haram, in particolare in Nigeria, e Al Shabaab nel Corno d’Africa, oltre ad Al Queda, con analoghe teorizzazioni intorno alla guerra santa.
Il terrorismo che esso esprime è efferato, completamente alieno al comune modo di essere. Un solco culturale separa i fondamentalisti dal resto del mondo, ma non possiamo cadere preda di semplificazioni fuorvianti e credere che lo scontro tra civiltà sia ormai in atto; concetto questo da criticare partendo dalla constatazione che solo una minoranza ha scelto la via del jihad armato contro l’Occidente, il quale jihad è principalmente rivolto all’interno dell’Islam.
Pur tuttavia, i miliziani di quella parte hanno guadagnato terreno e, utilizzando con tecnica raffinata i media, moltiplicano nella nostra percezione la loro potenza. E come non tenere conto del fatto che la realtà sul terreno abbia raggiunto livelli di drammaticità inusitati: in Siria Kobane, Madaya, Fuaa, sono città sotto assedio e distrutte, dove la popolazione civile muore nei combattimenti e di stenti – si calcola che in sei anni, in Siria siano morte 100.000 persone -; analogamente nella regione dell’Anbar, in Iraq. E la tendenza verso gli Stati falliti ha subito una rapida accelerazione con i conflitti in corso nello Yemen, nel Corno d’Africa, in Nigeria e in Libia.
E le popolazioni inermi sono diventate strumenti, ostaggi, nella complicata dialettica con il mondo civile.
Di fronte a questi fatti, il razionalismo e la cultura del mondo occidentale si confronta con una brutalità primitiva, messa in atto sulla base di una ideologia blasfema. L’Occidente, che è il mondo della tecnica, delle rivoluzioni industriali, della fede nello sviluppo economico senza sosta, per un mondo migliore, basato sul rispetto dei diritti umani, non può comprendere il fanatismo che ha guadagnato territorio e imposto le proprie leggi nei Paesi che sempre l’Occidente aveva osservato con simpatia durante le Primavere arabe. Allora le rivendicazioni di piazza, di giovani connessi in rete, apparvero legittime rivendicazioni politiche e sociali nei confronti di regimi solo apparentemente democratici, ma corrotti e incapaci di favorire lo sviluppo, nel rispetto dei diritti umani.
Ma, invece di convergere verso forme di più evoluta democrazia, quei movimenti – anche per reazione ai regimi che stavano abbattendo – si sono orientati verso il modello teocratico, con forme di aspro radicalismo, influenzati dalla propria visione del mondo. Una weltanschauung non solo ispirata dal fondamentalismo religioso, ma anche imbevuta di nazionalsocialismo panarabo, perché è noto che l’ISIS trae ispirazione dalla filosofia del partito Baath, la quale non può non inquietare l’osservatore occidentale.
Vediamo in estrema sintesi la sua genealogia.
“Il siriano Sati al-Husri conobbe l’idea di nazione di Fichte nel corso degli studi compiuti a Parigi nei primi anni del secolo scorso; era convinto che essa potesse essere valida anche per i paesi arabi, i quali dovevano perciò fare riferimento al pangermanesimo più che al modello della nazione francese nato dalla rivoluzione del 1789”….
“Nel periodo tra le due guerre mondiali al-Hustri guardò con ammirazione ai regimi fascisti. Sosteneva che l’unità araba, costituita dalla lingua, aveva preceduto quella islamica e metteva così la religione in secondo piano rispetto alla nazione. L’umma era costituita dalla nazione, non dall’Islam.”…
“Fichte aveva sostenuto che tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da esso parlata e che la lingua tedesca era superiore a quelle neolatine e anche a quelle derivate dallo stesso ceppo germanico, perché mentre le altre davano segno di vitalità solo alla superficie, essa viveva in profondità, sgorgava dalle forze naturali.”
… “Zaki al-Arzusi, un altro siriano, celebrò il primato della lingua araba: “le altre lingue non hanno radici nella natura, Dio si è espresso in arabo nel Corano”, dando così una connotazione religiosa, islamica, al nazionalismo linguistico. Al Husri e al-Arsuzi furono in Siria tra i fondatori del partito Baath, che nacque nel 1953 e si diffuse anche in Iraq. Il fondatore di questo partito fu un arabo di religione greco-ortodossa: Michel Alaq.
Secondo Alaq, la giustizia e la democrazia dovevano essere espressioni non della volontà della maggioranza, ma di una volontà generale, che si identificava nell’idea di nazione e s’incarnava poi in un partito leader. Il socialismo era inteso come solidarismo di clan, che postulava la formazione di uno stato assistenziale” .
(A. Lepre, Guerra e pace nel XX secolo, il Mulino 2005).
Ma quali le critiche all’Occidente?
Esistono alcune narrazioni significative, di cui occorre essere consapevoli. L’accusa ricorrente nei confronti dell’Occidente è di voler interferire in quegli affari, con mire di dominio imperialistico, esportando il nostro modello di vita, corrotto nei costumi, e imponendo regimi laici e democratici, quegli stessi che colà avevano assunto fisionomie autocratiche, da cui, come si è detto, sorsero le Primavere arabe.
Nondimeno, da parte occidentale, queste critiche talvolta trovano favorevole sponda, per i sensi di colpa dei trascorsi coloniali e per i sentimenti ispirati dal “terzomondismo”, che a torto o a ragione restano pur sempre vivi qui da noi. E in tal senso, la storiografia fa risalire l’origine della conflittualità in Medio Oriente alla geopolitica delle Potenze all’indomani del primo conflitto mondiale, in particolare con la definizione delle frontiere, la linea Sykes-Picot, da cui la nascita di entità statali non su base etnica, o clanica, ma arbitraria. E’ certo che in quei momenti storici l’Occidente volesse creare diverse entità statali sul modello occidentale, anche allo scopo di non favorire il riemergere di una potenza in grado di minacciare l’Europa, come era stato l’Impero Ottomano nei secoli precedenti.
E più di recente, che si siano ricercati processi di occidentalizzazione di paesi come l’Iran di Reza Pahlevi, prima della rivoluzione khomeinista; quindi gli attacchi ai “rogue states”: Afghanistan e Iraq, secondo la dottrina Bush della guerra globale al terrorismo all’indomani dell’Undici Settembre; e dell’esportazione della democrazia quale strategia per favorire la pace. Critiche sovente troppo radicali, imbevute di ideologia, che forse non considerano appieno i fatti, il contesto e le visioni proprie di quei momenti storici.
Sul piano sociale e culturale, poi, occorre considerare che l’Occidente possiede caratteri distintivi non ben accetti – se non invisi – a quelle popolazioni: la separazione tra Stato e Chiesa, ovvero la laicità dello Stato e il pluralismo delle visioni etiche costituiscono un tratto fondamentale della cultura in Occidente, sedimentato attraverso le vicende storiche europee, che costituisce un distinguo significativo con la cultura corrente del mondo musulmano.
La tecnica, sviluppatasi attraverso le ricerche scientifiche e le successive rivoluzioni industriali, che consente di manipolare a proprio uso e consumo l’ambiente che ci circonda, costituisce anch’essa un tratto caratteristico di differenziazione e contrasto con una diversa visioni del mondo, ispirata da un “pensiero aurorale” di fatalismo; quindi il pluralismo delle idee spinto ai livelli del relativismo nel quadro della Post Modernità, con messa in discussione dei valori assoluti in nome di quelli particolari, a fronte del dogmatismo tipico delle società in cui vige la teocrazia. In sintesi, la temperie culturale dell’Occidente laico, congiuntamente alla realtà organizzativa delle nostre società, risulterebbero inaccettabili da parte delle élite fondamentaliste che stanno imponendo con la forza una sharia di diritto positivo, “medievaleggiante” per chi vive la razionalità del pensiero come valore inalienabile e il progresso come conseguenza di quella razionalità.
Lo Stato d’Israele e le controversie per i territori occupati costituiscono altro motivo di rivendicazione da parte degli arabi, e quindi di conflittualità. La storia possiede sue drammatiche costanti, ed è singolare osservare che il nazionalismo sionista, concretizzatosi ad opera dell’ungherese Theodor Herzl, parte da fatti e sentimenti tuttora attuali. La difficoltà incontrata dagli ebrei a integrarsi nelle società occidentali ebbe in Francia, nel caso Dreyfus, una palese conferma, anche per gli effetti mediatici, che per l’epoca furono eclatanti. Partiva così quel movimento sionista che avrebbe portato, già nel 1914, in Palestina, centomila ebrei.
Ma sembra che la storia abbia sue analogie, oggi:
“La chiamano “la piccola Parigi”, anche se ha ben poco in comune con la “Ville lumière”, se non per il fatto che una buona parte dei suoi abitanti viene dalla Francia. Sono più di 3.000 gli esuli che negli ultimi 3 anni hanno scelto di stabilirsi a Netanya, una piccola località balneare situata a una ventina di chilometri a nord di Tel-Aviv. Le insegne dei negozi sono scritte in francese, come i menu dei ristoranti. Nelle strade e nelle piazze si sente parlare più spesso la lingua di Molière che non l’ebraico. Il caso di Netanya è emblematico di un fenomeno che va assumendo proporzioni inquietanti: sono sempre più numerosi gli ebrei francesi, e il movimento sembra destinato ad accelerarsi.”…
”I numeri parlano chiaro: secondo i dati della Jewish Agency israeliana, si è registrata nel 2014 una crescita significativa dell’“aliyah” (l’immigrazione degli ebrei in Israele): dalla Francia sono arrivate 7.086 persone, più del doppio delle 3.400 arrivate nel 2013 e quasi il quadruplo delle 1.900 arrivate nel 2012. Per la prima volta, gli ebrei francesi sono stati il gruppo più numeroso, e l’esodo non accenna a esaurirsi: anzi si prevede per il 2015 un’accelerazione senza precedenti dell’aliyah dalla Francia, più di 10 mila persone. Negli ultimi anni è ricomparso l’antisemitismo alimentato anche da una politica ufficiale filopalestinese e dalla presenza di oltre cinque milioni di musulmani sul territorio francese. Fino a far riecheggiare, in alcune manifestazioni, uno slogan che non si era più udito fin dagli anni 1930: “Ebreo, la Francia non fa per te”…
”La Francia è cambiata in peggio, dicono gli ebrei. Quelli che emigrano in Israele (o, meno numerosi, negli Usa e in Canada) esprimono il loro sollievo per non avere più la polizia in permanenza davanti alla scuola o alla sinagoga, o per non essere più costretti a togliere la “kippah” per il timore di essere aggrediti in strada.”…
”A soffiare sul fuoco è stato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il quale, venuto a Parigi per partecipare alla marcia contro il terrorismo dopo gli attentati di gennaio contro “Charlie Hebdo” e il supermercato “Hyper kasher” che hanno causato la morte di 17 persone fra cui 4 ebrei, ha dichiarato assai poco diplomaticamente alla presenza del presidente francese François Hollande: «A tutti gli ebrei di Francia, a tutti gli ebrei d’Europa voglio dire: Israele è la tua casa». E ha annunciato iniziative per incentivare l’immigrazione in Israele dalla Francia e da altri Paesi europei”.
(Paolo Romani,Famiglia Cristiana, marzo 2015).
Se quanto sin qui richiamato delinea le linee di frattura tra Occidente e mondo arabo, ancor più significativo per la comprensione del fenomeno DAESH appare la conflittualità interna a quel mondo, tra sunniti e sciiti e tra regimi laici e correnti fondamentaliste.
E’ noto che ISIS si sia alimentato per effetto dell’epurazione dei quadri del partito Bath nel dopo Saddam. Tale epurazione fu una scelta inizialmente indicata, nel 2003, da Paul Bremer e poi perseguita con maggiore determinazione dal governo di orientamento Sciita di Nuri al-Maliki, ostile ai sunniti che in precedenza avevano costituito la classe sociale dominante, che così sono confluiti nel DAESH. Ma il fenomeno geopolitico è più ampio: gli shiiti sono una minoranza nel mondo arabo che fa riferimento a una potenza regionale, l’Iran.
Lo scontro tra Shia e Sunna è radicato: la guerra Iran, Iraq negli anni ottanta; la guerra civile in Libano nello stesso periodo, dove si è palesata la proiezione di potenza di Teheran tramite Hezbollha. Da questo punto di vista, il conflitto all’interno del mondo musulmano sembrerebbe avere mire egemoniche: da una parte la Sunna lungo la mezzaluna che va dal Golfo Persico esteso a tutta la penisola Arabica, al Mar Rosso e all’Africa che si affaccia sull’Oceano Indiano, sino al Nord Africa, passando per l’Iraq e la Siria (ma per il “califfo” Al-Bagdadi quest’area sarebbe ben più estesa, configurandosi in chiave storica secondo i più ampi confini della massima espansione araba in Europa); cui si contrappone la Shia, le cui linee di supporto strategico corrono tra Iran, Iraq, Siria e Libano, senza peraltro escludere il Barein e lo Yemen, Stati in cui la popolazione sciita è cospicua.
Ma quali i fatti che emergono dal conflitto in atto? L’ Institute for Echonomics and Peace ha recentemente pubblicato una sua monografia sul fenomeno del terrorismo. I dati riguardano tutto il 2014 e quindi non configurano pienamente i trends involutivi del cruento 2015 ormai trascorso. Nondimeno, 32.658 vittime, +80% del 2014 rispetto il 2013, sono un’indicazione chiara del deterioramento globale della sicurezza. Altresì occorre considerare che è difficile accertare il numero delle vittime in paesi come la Siria, la Somalia o la Libia. Da UNAMI, la missione di assistenza in Iraq delle Nazioni Unite, risulta che nel periodo che va dal 1 gennaio 2014 al 31 ottobre 2015, 36.000 civili sono rimasti feriti e 19.000 sono caduti negli scontri tra gli opposti schieramenti.
Gli sfollati sono più di 3 milioni. E altro dato allarmante è che l’ISIS ha “reclutato” 8-900 bambini per l’indottrinamento religioso e l’addestramento militare. Questo è avvenuto solo nell’Iraq dove il DAESH si è espanso e dove sono in atto i combattimenti.
Ma il terrorismo ci appare in una forma eclatante, anche per la pervasività dei mass media. Gli attacchi vengono portati all’interno del mondo musulmano e in Occidente secondo il rituale del martirio, fatto emblematico del tipo di scontro in atto, cui si aggiunge una veemente dialettica, con narrazioni deliranti, secondo una mitologia cruenta, che, veicolata efficacemente dalla rete, fa proselitismo, anche qui tra noi.
Le strategie e le operazioni in atto sono adeguate allo scopo di riportare l’ordine ai confini della vecchia Europa? I conflitti balcanici ci avevano abituato a un certo attivismo da parte delle Organizzazioni internazionali che dettero vita a una serie di interventi umanitari e militari. La NATO, nel 1999, intervenne in Kosovo ancor prima che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deliberasse l’operazione, per scongiurare il rischio che fossero compiute azioni di pulizia etnica, come pochi anni prima si era verificato in Bosnia, a Srebrenica, nel 1995.
“Boots on the ground” fu allora la formula vincente, ma gli interlocutori erano diversi. Ora è fuor di dubbio che la situazione sia più complessa di allora, e comunque è lecito domandarsi quale strategia si debba adottare per sconfiggere il DAESH. La risposta in atto è costituita dall’operazione Inherent Resolve, a guida statunitense, lanciata nell’ottobre del 2014, che al momento vede coinvolti nello sforzo ben sessantacinque nazioni, con compiti diversi, non tutti operativi e di combattimento. L’Italia è presente con circa 250 uomini, con l’operazione denominata “Prima Partica”, per fornire assistenza militare ai peshmerga, a Ebril nella regione fisica del Kurdistan e all’esercito e alla polizia irachena, a Bagdad; cui si aggiunge il concorso non di combattimento di una Task Force Air con circa 190 uomini, schierata in Kuwait da ottobre 2014, consistente in due velivoli a pilotaggio remoto Predator, un velivolo da rifornimento in volo e quattro velivoli A-200 Tornado in versione IDS (per la ricognizione e sorveglianza).
La coalizione opera individuando e neutralizzando mediante attacchi aerei le forze dell’ISIL in Iraq e Siria e fornendo assistenza militare ai partners iracheni e curdi. Alla data del 23 febbraio la coalizione aveva condotto 10.501 attacchi aerei in Siria e in Iraq, cui avevano preso parte Stati Uniti, Australia, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda Gran Bretagna, Barein, Arabia Saudita, Turchia e Emirati Arabi Uniti. Alla data del 9 febbraio si stimano 21.501 obiettivi distrutti o neutralizzati dall’inizio della missione, tra cui 139 carri armati, 341 veicoli tattici leggeri, 1.043 basi operative, 5582 edifici ospitanti posti comando o basi operative, 6720 postazioni e appostamenti, 1216 infrastrutture petrolifere gestite dal DAESH e 6430 altri obiettivi. (US Department of Defence web-site). Occorre inoltre precisare che i menzionati attacchi aerei sono stati condotti con il lancio di circa 35.000 ordigni di precisione per evitare il più possibile danni collaterali alla popolazione (CENTCOM, Press relise 22.01.16).
Tuttavia, le valutazioni sull’efficacia dell’azione della coalizione a guida statunitense sembrano poco ottimistiche.
“La scarsa incisività dell’offensiva aerea alleata contro l’Isis è ben rappresentata dal confronto con gli attacchi aerei effettuati in Kosovo e Serbia nella guerra del 1999 (38 mila in appena 70 giorni) e dal confronto con l’intervento aereo russo che, oltre ad essere limitato alla Siria ed effettuato con appena una cinquantina di velivoli, ha registrato 5.662 raid contro “i terroristi” (Stato Islamico e altri gruppi jihadisti che combattono il regime di Assad) e ha lanciato 97 missili da crociera in appena 107 giorni, tra il 30 settembre 2015 e il 14 gennaio 2016”.
(Analisi Difesa, gennaio 2016).
Come è noto, dal mese di ottobre anche la Russia combatte in Siria il DAESH, sostenendo Hassad e le formazioni combattenti lealiste; quindi attaccando anche il Free Sirian Army Force, la componente delle forze armate siriane che si oppone al regime ed è sostenuta dalla Coalizione internazionale.
L’intervento russo sembrerebbe svilupparsi lungo le tradizionali linee di grande strategia di quel Paese, a tutela degli interessi geostrategici costituiti dalla base di Tartus, appoggio navale sul Mar Mediterraneo, e geopolitici, di contenimento del terrorismo di estrazione sunnita nell’area caucasica.
L’azione russa in Siria si manifesta anche mediante la vendita a questo Paese di ingenti quantità di armamenti, anche sofisticati, come i missili anti-nave Yakhont (Lettera 43, 17.05.13), che renderebbero la costa di fatto impenetrabile e potrebbero anche colpire obiettivi terrestri sino a trecento chilometri di distanza da un lanciatore in volo.
Naturalmente non può che stupire il favore che ha riscosso da noi l’intervento russo, in particolare per il sostegno al presidente siriano Hassad, che ha represso nel sangue le rivolte, provocando undicimila vittime, come documentato mediante ricostruzioni di fotogiornalismo (Operation Cesar), che hanno portato la Francia ad aprire un’inchiesta. Poi, tale favore sembra non considerare i rischi di uno scontro con la Turchia, che è un Paese dell’Alleanza Atlantica; i già citatati attacchi contro Free Syrian Armed Force; nonché l’uso di munizionamento non guidato, che provoca ingenti danni collaterali, come subito rimarcato da Michael Fallon, ministro della difesa del Regno Unito.
Al riguardo, il Sirian Observatory for Human Rights riferisce che in quattro mesi di operazioni gli attacchi russi hanno provocato la morte di più di mille civili.
Se questa è la situazione, occorre chiedersi se l’Occidente debba intervenire nel conflitto più incisivamente, in particolare con truppe di terra, in Siria in Iraq o in altre parti, come la Libia. La crisi umanitaria, configuratasi anche con il fenomeno dei migranti, che sta mettendo in crisi l’Europa di Shengen, potrebbe prima o poi portare a un “semaforo verde” da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anche per interventi limitati e selettivi.
Ma sul piano operativo quali potrebbero essere gli scenari? Come già descritto prima, si tratta principalmente di uno scontro all’interno del mondo islamico, che però non esclude minacce all’Occidente di natura terroristica, nonché rischi geoeconomici, in termini di costi della conflittualità e interruzione di flussi energetici. Conseguentemente, un intervento diretto, ulteriore rispetto a Inherent Resolve, (termine che indica l’intervento militare statunitense contro lo Stato Islamico in Iraq e del Levante – ISIL – in Siria) non lo si può escludere, ma, in ogni caso, dovrebbe risultare sempre limitato nell’entità degli sforzi tattici, sul campo, e nelle circostanze di tempo e di luogo.
Eccentrico, ma sempre coerente con tale prospettiva, tuttavia, sembra inserirsi l’attacco statunitense in Libia del 19 febbraio, quando è stata distrutta una base operativa dell’ISIL vicino Sabratha, dove operava Noureddine Chochane, un terrorista che si accusa di aver organizzato l’assalto al museo del Bardo di Tunisi, del 18 marzo 2015, quando furono uccisi tra gli altri quattro turisti italiani.
E’ questo il caso di un intervento unilaterale, statunitense, con utilizzazione di basi britanniche, non appoggiato dall’Italia, che configurerebbe una strategia di logoramento mediante attacchi selettivi contro obiettivi di elevato rendimento, utilizzando allo scopo assetti specialistici e tecnologie evolute, senza dislocare unità operative sul terreno.
Manovra di logoramento, appunto, efficace se inserita in un processo diplomatico per la gestione della conflittualità – come sforzo sussidiario -, la cui efficacia è da verificare nel medio periodo. Ritornando ad un intervento diretto, conseguente al via libera delle Nazioni Unite, esso, a parere nostro, dovrebbe configurarsi come un ampliamento dell’azione militare e politico-diplomatica in atto, secondo la prassi del “comprehensive approach”, di cui si teorizza in ambiti internazionali come l’Unione Europea e la NATO, anche se con declinazioni diverse (questo termine, ancorché definito mediante approfondite teorizzazioni, viene utilizzato genericamente nella terminologia anglosassone per indicare “impiego di tutte le risorse”, “viribus unitis” ed è presente anche nella Risoluzione 2140 agosto 2014 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con cui l’ONU chiede di contrastare il terrorismo di ISIS e Al-Nustra).
In concreto, lo sforzo principale dell’operazione dovrebbe essere costituito da un’azione essenzialmente di assistenza ai governi di accertata legittimità (in alcuni casi questi devono ancora instaurarsi), nelle diverse aree di crisi, affinché riescano a sviluppare capacità sufficiente a gestire la realtà politica, economica e sociale, partendo dalla sicurezza. In sostanza, uno State Building ben fiancheggiato da operazioni umanitarie con lo scopo principale di riguadagnare il consenso all’autorità riconosciuta legittima, in modo che l’anti-stato degli jihadisti venga a ridursi fino a restare come fenomeno residuale e facilmente contenibile. Ma la complessità di questa operazione è il principale problema che la Coalizione dovrebbe affrontare nel proprio interno, investendo per lo scopo le risorse necessarie e facendo funzionare i processi di lavoro, il che non è facile quando si affronta questo genere di complessità.
Dunque, il “centro di gravità” della manovra strategica sarebbe virtualmente collocato nel settore sociale e politico degli Stati sotto attacco dei fondamentalisti. E dove applicare gli sforzi sussidiari? L’aspetto militare nella prima fase dovrebbe, come entità, eguagliare, quello politico e sociale per implementare con la forza le condizioni di sicurezza minime necessarie, che sono il fondamento della vita delle persone, anche per consentire l’afflusso di aiuti umanitari. Ma la coalizione internazionale dovrebbe solo integrare gli eserciti e le polizie di quegli Stati, fornendo assistenza e assetti tecnologici di cui essi non dispongono, nel solco già tracciato da Inherent Resolve. Ma come si è già detto, si tratterebbe di uno sforzo complesso, molto articolato in settori di intervento parecchio diversificati, dove gli operatori provengono da culture organizzative diverse, nonché da paesi differenti, secondo il concetto del “joint and combined” (operazioni militari congiunte e interoperabili), e che per questo faticheranno non poco ad amalgamarsi e a farsi coordinare dall’autorità delegata.
Questa è la vera sfida insita nella filosofia del comprehensive approach, di fatto utilizzata nelle operazioni delle Nazioni Unite, per esempio MONUSCO (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Congo), nella Repubblica Democratica del Congo. Ma il punto è che oggi sembrerebbe mancare un paradigma capace di motivare e giustificare di fronte all’opinione pubblica un impegno di così vasta portata e lunga durata, anche perché le leadership occidentali non hanno ancora espresso linee politiche ben marcate nella direzione di interventi contro DAESH.
Viceversa, le opinioni girano intorno alla presunta inefficacia delle operazioni sin qui condotte contro la galassia jihadista e gli Stati che rappresentavano santuari del terrorismo. Dunque, occorrerebbe risolvere prima il problema culturale, di interpretazione dei fenomeni conflittuali, con un approccio questa volta scientifico e senza lasciarsi condizionare dalle ideologie, supportato da una comunicazione accurata, che però è contrastata dalle vulgate tipiche dell’epoca dei new media.
Poi, ove le organizzazioni internazionali avessero assunto le determinazioni opportune, ovvero avessero negoziato gli accordi necessari per poter impiegare una coalizione, occorrerebbe generarla, a partire dal centro di direzione operativo di teatro – un quartier generale dell’operazione sul modello di quelli militari -, in grado di funzionare a “trecentosessanta gradi”, con corrispondenti strutture organizzative subordinate, come comandi operativi in sottordine e tattici. Fatto questo, l’Occidente dovrebbe essere disposto ad accettare il “rischio d’impresa” che comporta l’entrata diretta in un conflitto, e sostenere lo sforzo per un periodo al momento indeterminabile: dieci, venti anni e oltre, quanto dura un processo di State Building?
Come delineato, la complessità dei fenomeni e delle azioni per fronteggiarli richiede un impegno interpretativo dei contesti e dei fatti cui siamo spettatori in questa epoca, e capacità operative a decidere e gestire risorse. Forse tutto questo, almeno in parte, oggi manca, ma gli eventi sono pressanti; l’ingerenza umanitaria è pur sempre un paradigma morale, un imperativo categorico, di cui occorre tenere conto, e infine, rischi e minacce – più o meno credibili – sono rivolti al nostro modo di vivere qui in Occidente.
Quindi, su questo fronte, il futuro immediato potrebbe riservarci qualche sorpresa.