N U N Z I A T E L L A
I C A N T O S
Gabriele Albarosa è il cantore
CANTO SECONDO
CAPPELLONE
“Faciteme parla’ con la crijatura“
“Mi scusi, ma l’è apêrto il pârlatorio?”
“I’ sto a’spetta‘ da n’ora ‘n ‘sta calura”
Ogni anno un rito sopra il promontorio
Del Monte Echia, “l’Italia per dialetti”
Svolgevasi: da tutto il territorio
Della naziòn giungevano gli eletti
Che dopo dura prova di concorso
Si univano alle fila dei cadetti
I cui parenti a principiar discorso
A causa della loro provenienza
Eran costretti a volte a far ricorso
Ai gesti ed a ripeter con pazienza
Mentre chiedevano dei propri figli
Perché fosse compresa lor sentenza.
Erano lì per dispensar consigli
E dar verba di sprone il giorno appresso
Al nostro cominciare, i lor bisbigli
Ignari quanto a quel ch’era successo
Celavano apprensione per l’incontro
Ch’era un addio al frequentarsi spesso.
Io ero ancora scosso per lo scontro
con la realtà dell’aspro benvenuto
Inenarrabile, senza riscontro
Con quanto fino allora conosciuto.
Era così per tutti, in poche ore
Il più ciarliero si era fatto muto
E ognuno, sopraffatto dal terrore
Di dire o fare senza altrui comando
Fremeva per vedere il genitore.
“Di corsa, marsc‘! In riga! Che è ‘sto sbando?!?”
Poche istruzioni urlate, d’indirizzo
“Un’ora e non di più – mi raccomando!”
Ma al “rompere le righe” con un guizzo
Svanito l’incubo dell’Istruttore
Dal militare usciva lo scugnizzo:
Sorrisi mescolati a batticuore
Nell’affrettarsi al fondo del cortile
Magliette verdi intrise di sudore
E in un borsone, l’abito civile.
“Vi han fatto far la doccia coi vestiti?!?”
Chiese una voce fragile e gentile
Rasati a zero, goffi ed impauriti
E bisognosi d’incoraggiamento
Ci presentammo ai cari sbigottiti
Per l’entità del nostro cambiamento.
Or non ricordo bene, lo concedo
Quel che fu detto dopo quel momento
Ma è come fosse ora che rivedo
Le mamme palesar strazio ed orgoglio
Negli occhi, poco prima del congedo.
Al termine dell’ora si fe‘ spoglio
Il luogo degli abbracci e dei saluti
Mentre eravamo ancora al primo scoglio.
Poi soli ritornammo da que‘ bruti
All’ordine di porsi in adunata
Nel tempo di secondi, non minuti
Ciascuno in posizione designata
Sempre la stessa: in ordine d’altezza
In formaziòn coperta e allineata
E sull'”Attenti”, in somma compostezza
Mentre uno Scelto ammaina la bandiera
Squilli di tromba, il vento che carezza
Le nuche ignude al giunger della sera…
“Sono un allievo della Nunziatella!”
– Pensai – “che onore essèr di questa schiera”
Al che una voce truce, punto bella
Ratto della realtà mi fe‘ più certo
“È pazzo?!? Le è saltata una rotella?!?
Si svegli! Qui non siamo ad un concerto!”
E via di corsa, giù, verso la mensa
Dove per otto posti era il coperto
Cibo abbondante, grata ricompensa
Per chi correndo da mattina a sera
D’assalto avrebbe preso la dispensa.
Per ogni ottetto conviviale c’era
Per capotavola un gradüato
Preposto ad indicare la maniera
Del galateo cortese e raffinato
Da desco e con dovizia d’attenzione
Sulla postura e i gesti concentrato:
“Il poggia-schiena non va mai sfiorato!
L’angolo da impostare è quello retto:
Ginocchio-culo-gomito squadrato!
E il braccio non è l’ala di un galletto!
Va mantenuto allineato al busto!
L’ascella sostener questo libretto
Deve potere, e farlo in modo giusto:
Dall’antipasto al dolce, senza sosta
Sì che non cada in terra con trambusto!”
Queste parole alzavano la posta
In gioco, invero fino al parossismo
Facendo del mangiare cosa tosta
Quasi una prova d’alto equilibrismo.
Ogni atto richiedeva una perfetta
Esecuziòn, ma il vero virtuosismo
Constava nell’usare la forchetta
Ed il coltello per sbucciare un frutto
Con tocco da rasoio, fetta a fetta
E col terror di un risultato brutto
Senza l’opzione d’esito parziale:
Il cibo andava consumato tutto.
Di quell’ardua leziòn come finale
A segnalar del pasto la chiusura
Sul piatto le posate in verticale
Ci fu ordinato di appoggiar con cura.
Seguirono due giorni dove il tema
Era ripetiziòn di procedura:
“Si svegli! Questa polvere è un problema!”
Passava con il guanto l’Istruttore
“…E lucidi le scarpe con più crema!”
Flessioni e letto-cubo per due ore,
Inquadramento, marcia ed adunata
Corse continue, rossi pe’l calore
Ed aspra guerra con la frutta odiata
(“Ahi mele e arance lucide, sguscianti…”)
– E al fin silenzio e notte in camerata.
Solerti eseguivamo, nuovi fanti
In quell’accelerato apprendimento
“Tacere bisognava e andare avanti!”
E al culmine di tanto addestramento
Venimmo edotti circa l’avvenire:
Non si trattava di un miglioramento
Ma di un amplificarsi del subire
Ché terminata la licenza estiva
Di ANZIANI s’apprestava l’affluire!
…Erinni, forza oscura, primitiva
Pronta ad abbattersi sui Cappelloni
Con massima potenza distruttiva
Mostruosi,
della Scuola re
e padroni.
CANTO TERZO
L’ARRIVO DEGLI ANZIANI (143)
A notte fonda, in umide caverne,
Per foraggiar si desta il pipistrello;
È cieco, non gli servono lanterne:
Segnala l’ultrasuono al suo cervello
Quel che d’intorno a lui tutto si trova
E sa distinguer lama da fuscello,
Tale è la precisiòn di cui si giova.
Stormi di pipistrelli, quella notte,
Lasciarono la lor segreta alcova
E volteggiàron, sul mio letto, a frotte,
Sinistre e minacciose anime nere,
Fameliche, terribili, corrotte,
Per poi svanir, frusciando, allo scadere
Del trepido dormire e, in un istante,
La tromba della sveglia ebbe il potere
Di permutare l’incubo volante
In quello del trambusto mattutino:
Prova a cronometro, lo Scelto urlante
Tra camerata e bagni; spazzolino,
Sapone e asciugamani sotto il braccio:
“In ‘tempo zero’ de’e, tutt’a puntino,
Essere pronto e senza alcun impaccio!”
Vestito, cubo e mòniti severi;
Rivista: al guàto di occhi di ghiaccio.
Fu forse per effetto dei pensieri
Onirici, per scherzo della mente,
Che riflettei sul suòn che fino a ieri
Le mura del Maniero, fedelmente,
Avevan rimbalzato…un suono strano:
Come in un antro vacuo, maggiormente
L’eco risponde a quel che chiama invano,
Così gli spazi a mensa e nei cortili
Ed ogni corridoio ed ogni vano,
Spogli delle figure giovanili
Di quelli del secondo e terzo anno,
Rombavano l’assenza di febbrili
Attività, al novello compleanno
Di quel Collegio che, sin dal Borbone,
Fece testimonianza dell’affanno
Per chi crebbe di qui del suo portone.
Al giungere del giorno del rientro,
Cresceva l’apprensiòn del Cappellone,
Giacchè se sino allora il viver dentro,
Per opera di duce gradüato,
Arduo era parso… Adesso l’epicentro,
Alla mercé d’Anziano assatanato,
Di terremoto portator d’oblìo,
Senza niùn scampo egli sarebbe stato;
E per questa tensiòn lo spirto mio,
Fu scosso nel profondo al punto tale
Che pari il timor fu a quello di Dio.
… Né si potea il silenzio dir normale:
L’arrivo – ordine sparso, a noi nascosto –
Cambiava l’atmosfera del locale;
Nappine fucsia comparivan tosto
Per poi sparir da dietro uno spiraglio;
Strisce d’azzurro e del color di mosto,
Accompagnate dal dorato abbaglio
Di splendidi spadini e di bottoni;
Sagome bianche che, come per sbaglio,
Parèvan svelte, angeliche visioni;
E sibili e sussurri che, col vento,
Si confondèan e con, del luogo, i suoni.
Si fece manifesto il loro avvento
Prima di cena, al volger della sera;
Tre compagnie a formar lo schieramento
Di battaglione, sotto la bandiera;
Ma grida di star “fissi”, sguardo avanti,
Ergevano invisibile barriera,
Tra noi, i nuovi entrati, i nuovi fanti;
Que’ del secondo anno, le “Cappelle”;
Ed oltre, quelli più terrificanti:
Gli “Anziani”, il cui non star più nella pelle,
Per noi vessar, dal chiasso e dal mugghiare,
Era palese e certo delle belle
Avremmo visto, innanzi al tramontare.
Al presentar la forza fu la quiete:
E, pur senza permesso di guardare,
La gerarchia, voi non ci crederete,
Svelossi pe’l rumore dell'”Attenti”:
Noi tònitro di pianta, come ariete,
E, fatto il nostro cento, gli altri a venti,
Quelli vicino a noi, poggiàron piota
E gli ultimi, di tacco, fur battenti.
Rimase a noi di lor la vista ignota
Anche alla mensa, gli occhi fissi al piatto,
Sempre più adusi a condiziòn d’Ilota,
Soggetti ad asimmetrico contratto:
Simili ad ostia pronta pe’l macello,
A testa bassa, l’ego andava sfatto
E dopo il pasto, infine, venne il bello
Poi che, tradotti giù in Sala Convegno,
Qui, di “cappellonaggio”, un gran bordello
Si svolse e a noi toccò pagarne il pegno;
L’Anziani indiavolati erano ovunque,
Ognuno concentrato, con ingegno,
A esercitar soperchieria qualunque:
Uno faceva correre sul posto,
Quindi flessioni per venire al dunque,
Altri si avvicinavan di nascosto,
Da dietro, mentre stavi sull’attenti,
E all’urlo “…Tenda!” staffilavan tosto,
Le mani tese e ai gomiti fendenti,
Con quel di fronte, rigonfiato d’ira,
Sbraitare: “Si rilassa?!? …Complimenti!”
Alcuni ti prendevano di mira,
Per fare scherzi ad altri a spese tue:
“Gli dica: ‘io son uno che l’ammira
…Per la virtù delle sorelle sue’!”
Oppure: “Faccia come l’aeroplano:
Vada in missione a mitragliar quei due!”
E molti, con un foglio nella mano,
Elenco dei colleghi di sezione,
Dicevan: “Questo qui, come il Corano,
Deve ripetere, in adorazione;
Lo impari e torni, entro cinque minuti,
E poi, del foglio, faccia colazione!”
V’erano, infine, tali ancor più bruti
Che spalle al muro ti facevan stare
E i tuoi scarponi, questi nerboruti
Calciavano per far divaricare
Finché, con i talloni a cent’ottanta,
Perdevi l’equilibrio e, a compensare,
Un doppio maglio in petto, con cotanta
Forza che induce ancor triste ricordo
Per sensaziòn di duòl che tutto ammanta.
Se il modo di qualcuno era balordo
O troppo serio, i più, parea evidente,
Se la spassavano, tutti d’accordo,
Cattivi solo superficialmente,
Nel grande gioco delle Tradizioni,
Goliardici coi “Kaps”, sennatamente.
Delle Cappelle non farò menzioni
Perché era com’ei fosser trasparenti
…E per fortuna! Perché, di tenzoni,
Eran bastanti già quelle esistenti!
Se quello fu il battesimo del fuoco,
Non era che l’inizio dei cimenti;
Da tempo immemore, dentro a quel loco,
L’iniziazione aveva gran durata
E di speranza il lume parèa fioco.
Ma almeno si concluse la giornata,
Nata con un presagio poco bello,
Che cieca, sotto-sopra, inaspettata
Volò, come di notte il pipistrello