GRANDE E’ LAGUERRA !
COSA RESTA
CENT’ANNI DOPO
di Nunzio Seminara
Sempre sul “cosa resta, cent’anni dopo”.
Perché quella Storia è durata quattro anni in Europa, e per noi, ufficialmente tre anni, ma dal 2014, fino al 2018, la vediamo e rivedremo scorrere sui media cartacei e quelli telematico-visivi-computer–movies.
Chi più ne avrà, più ne metterà.
Nell’edizione di marzo è stato evidenziato che per noi restano alcune immagini, icòne della Storia Patria. Enrico Toti e Francesco Baracca.
Ma anche per “loro”, gli austroungarici, vale il “cosa resta cent’anni dopo.
Erwin Johannes Eugen Rommel
anche lui cominciava con i baffetti….
Quel 26enne Capitano, che a Caporetto fece un sacco di prigionieri fra i nostri, senza guida o sbandati o sorpresi in flagranza di riposo. Sì, erano un sacco perché ancora non è aritmeticamente provato quanti fossero.
Quell’Erwin che appena 25 anni dopo divenne Feldmarescial e dopo la seconda guerra mondiale, e lo è tuttora, la leggenda della strategia e della tattica del militare. Si parlerà ancora di lui.
Ma, senza neanche immagini, di’ “Rommel” e dici un mito.
E poi il Barone Rosso, quel Barone alemanno Manfred von Righthofen, Cavaliere del cielo, ironia del contrario nostrano che antesignava sulla sua carlinga un cavallo rampante destinato a diventa il marchio della “Ferrari “. Quasi come in un mutuo accordo con l’altro Eroe italico, il Francesco Baracca, il Barone, chiamato infatti “Rosso”, che fece verniciare in rosso il suo destriero di metallo e di motore.
Ironia del contrario veramente!
..…e ci piace pensare che si fossero messi d’accordo…..
opposti estremismi che, come nelle convergenze parallele,
si sono incontrati all’infinito, del cielo e del mito.
il Barone Manfred von Righthofen
Due nostri simulacri di qua e due simulacri di là che restano, a noi e a “loro” dopo cent’anni.
Anche per loro due volti puliti e onesti di lavoratori del dovere, e della Patria.
Loro per l’altra, i nostri per la nostra.
E per tutti, quella guerra atroce, porta anche un nome, cerniera fra quello che avvenne prima di quel 24 ottobre 1917 e quello che avvenne dopo e che oggi ancora fa vivere polemiche e memorie sacrificali di umili combattenti, è segno inconfondibile,
di una disfatta e poi di un riscatto, quello sul Piave.
Caporetto.
Fino ad allora si combatteva più o meno in parità, sulle Alpi e tra le trincee maleodoranti di sangue.
La tattica tanto denigrata che era però quella di tutti gli Stati Maggiori.
Cambiava la guerra degli eserciti sul fronte unico, arroccati fra le montagne-argine,
coinvolgeva territori abitati che, per la prima volta, sul Trentino e in Friuli, subirono le vicende di guerra come “camera di compensazione” degli scontri, subendo a fisarmonica avanzate e retromarce.
Tattica di guerra imposta dai territori e che gli alleati d’oltre Oceano e oltre Manica criticarono ben presto, e che oggi sono ancora i più acerrimi commentatori, dimenticando che le loro storie militari non avevano avuto esperienze di quella guerra di logoramento su terreni impervi.
E Caporetto, divenne il “nome–simbolo”.
I germanici, liberati dal fronte russo, dove gli uomini dello Zar Nicola avevano problemi interni un po’ ….rivoluzionari, si riversarono sul fronte italiano e gli austriaci ebbero una grossa spallata.
Si sapeva che sarebbero arrivati. Si diceva che fossimo pronti. E così era.
Ma anche i nostri Fanti, Alpini e Bersaglieri erano pronti.
Anche le Artiglierie.
Ma qualcosa di strano avvenne.
Oggi stranamente accantonato.
Le artiglierie su quel fronte non reagirono. Ordini “a voce”, di un ripiegamento, senza regole, furono diffusi fra le truppe. Un improvviso ripiegamento, non previsto, senza reazione.
Interi reggimenti disorientati. Preda degli efficientissimi reparti dell’altra parte addestrati a prendere sul posto le decisioni. E’ stato già scritto su pizzofalcone on line, il n. 1, quando Antonio Venci ha introdotto il concetto del “weisungsfuhrung (esercizio del comando per direttive), parola con cui si sintetizzava, sin dall’epoca di von Moltke il Vecchio, il concetto che è importante favorire l’iniziativa e che la scelta di ‘come‘ sviluppare l’azione non debba essere condizionata da chi impartisce l’ordine, mediante circolari cavillose o ordini eccessivamente dettagliati. Si tratta evidentemente di un fenomeno culturale unico, che si evolverà sino a livello tattico nel concetto di auftragstaktik, già nel Secondo Conflitto Mondiale, e che oggi negli eserciti occidentali viene definito “mission command” (comando decentralizzato).”
Ma che è quell’addestramento al quale i Bersaglieri, nello “spirito di iniziativa fino all’improvvisazione” è una prerogativa della specialità dei Fanti Piumati e con loro dei reparti di Assalto degli Arditi.
Che adottarono con sagacia e determinazione quando le condizioni del campo di azione diventò idoneo.
A partire dallo stesso Piave, dove nacquero Arditi particolari, “i Caimani del Piave”.
E da lì ritornarono “alla pari” i confronti fra gli schieramenti contrapposti. Fino al riscatto definitivo della campagna vittoriosa di Vittorio Veneto.
In questa situazione fu assai facile improvvisare per situazioni impreviste. Fu facilitato il “lavoro” di attacco dei reparti di assalto dei comandanti come Rommel.
Difficile la reazione. Doloroso il ripiegamento verso il Piave.
Orgogliosa la sosta al di qua del guado.
Pronta e tignosa come non mai la nostra reazione su quel fiume che divenne sacro, e che neanche germanici, austriaci si aspettavano.
Un piccolo tomo recentemente trovato fra gli “usati” di una bancarella, ha riacceso alcune riflessioni.
“L’ULTIMA RETROGUARDIA, I Bersaglieri dall’Isonzo al Piave”,
Ed. Gaspari.E’ la raccolta del diario del Gen. Giuseppe Boriani.
Proprio nei giorni che vanno dal 24 ottobre del 1917 in poi la confusione fra le linee italiane diventa inspiegabile: ordini improvvisati e immotivati di ritirata, in un settore del fronte dove i reparti italiani erano invece preparati al contrattacco e molto motivati, alimentano un panico che porta all’inizio di quella tragedia che sappiamo.
Ma questa osservazione non ha il giusto risalto.
Perché?
Una circostanza fortunata ci mette in contatto con il nipote del Generale Boriani, Sandro.
Lo andiamo a trovare. Una documentazione inedita e più inquietante viene alla luce.
Si tratta di un procedimento di accusa del Gen. Boriani, nei confronti del Magg. Nicolini Gio.Batta, Capo di Stato Maggiore della 47^ Divisione, che al momento era provvisoriamente alle sue dipendenze e che a sua volta dipendeva dal XXVII Corpo d’Armata, quello comandato da Pietro Badoglio.
Il Magg. Nicolini sembrava muoversi con molta disinvoltura per disporre a destra e a manca direttive e ordini, di cui l’origine non sembrava attendibile. E senza precisi ordini documentati, diffondendo disposizioni del suo Comando Superiore (il ripiegamento chiede una prova documentale senza equivoci: tragedie inevitabili reclamano motivazioni certe, ma non v’è alcun riscontro, anche oggi).
E risulterebbe anche, che nessuna disposizione avvenne dalla stessa Divisione di cui era Capo di Stato Maggiore, tra l’altra alle dipendenze del Comando interinale del Gen. Boriani, mentre il XXVII Corpo d’Armata, “Superiore Attività” del Reparto, non avrebbe dimostrato ordini, disposizioni, “dispacci” scritti.
Il XXVII Corpo d’Armata, dalle artiglierie pronte all’ordine di fuoco del Comandante, il Gen. Pietro Badoglio. Che però, risulta, furono “silenti”.
Quelle disposizioni trasmesse come ordini precisi non erano attendibili?
Bisognava verificarle?
Quando si è sorpresi da parole diffuse e concitate che sciolgono i comandi dei reparti, mentre si è pronti e convinti delle contromosse, sul fronte in armi l’attendibilità diventa superflua, per l’effetto irrefrenabile della tensione per l’attacco preventivo e di risposta, già di per sé compromesso dalla sensazione che le truppe hanno quando non è che “la bella morte” sia tanto apprezzata……, basta una indecisione momentanea, di pochi secondi, per moltiplicare cedimenti del morale e ha provocare un ripiegamento repentino, come avvenne, e il panico, scintilla dell’emulazione collettiva.
Il Gen. Boriani, in quei minuti accorso in altra posizione del fronte,al suo rientro nella postazione, venuto a conoscenza di tali stravolgimenti senza senso, non dà credito alle “disposizioni” diffuse dal Magg. Nicolini, anzi, procede nel contrattacco con le sue truppe motivate e ben addestrate “alla risposta”, superando gli austriaci sulla cima del Globokak e facendo persino dei prigionieri, “germanici”.
Il procedimento dell’inchiesta sulle accuse del Gen. Boriani verso il Magg. Nicolini va un po’ alle lunghe. Troppo alle lunghe. Non si conclude.
Il Gen. Giuseppe Boriani, pluridecorato, che non disdegnava, pur rimproverato dalle “Superiori Autorità”,di guidare all’assalto i suoi Bersaglieri perché la sua morte avrebbe provocato seri problemi ai reparti se privati del loro Comandante, secondo il classico procedimento romano del “promoveatur ut moveatur”, diventa Generale di Divisione egli viene affidato, a fine dell’ottobre 1918, il comando della 7^ Divisione di volontari cecoslovacchi per combattere contro gli austriaci.
Il processo si interrompe. E non se ne sa più niente. Naturalmente!
Finora.
Questo ci resta di quei cent’anni fa.
Caporetto.
La cerniera dei ragionamenti militari e quindi della Storia Politica. E, ancor più, del proliferare della autodisistima.
E dell’inzuffamento di improvvisati storici giornalisti, opinionisti, conduttori di talk-show televisivi. E di registi di fiction e di fumetti.
Fino ad oggi.
A vantaggio delle falsità di cose dette e scritte su tutti quegli uomini di cent’anni fa.
E, fino ad oggi, per gli stessi fatti di oggi.
Il Gen. Giuseppe Boriani
Di questo si dovrà trattare.
Partendo dalla Storia di Giuseppe Boriani.
Per provare a capire di più su quel ripiegamento improvviso verso il Piave.
Per scandagliare, senza presunzione, quel mare impervio di una vicenda che sembra consolidata, con l’acquisizione di qualche notizia che, come quella che qui si riporta, assolutamente inedita.
Per sciogliere quell’intricato bandolo della matassa contradditoria di racconti confusi e di incerte certezze.
E risalire, forse, al “capo di Caporetto”.