MEMORIE DI UN ADDETTO MILITARE in Libano (1987–1990)
a puntate
di Lucio Martinelli
1989. L’ANNO DEL TERRORE
1^ parte
1.Presentazione della situazione.
Il 1989, a detta di tutti gli osservatori che seguivano la crisi libanese fin dal 1975, è stato forse l’anno più duro e catastrofico sopportato dal Paese dei Cedri perché, oltre alle distruzioni e ai morti, aveva inficiato in tutti, libanesi e non, la speranza in un futuro di pace, di libertà e di sovranità. Chi ha vissuto, come me, questo anno terribile, si era fermamente convinto che se non c’erano interessi economici a livello mondiale, ciò che succedeva in Libano, o in altre parti del mondo, era esclusivamente un problema locale. Era meglio non intromettersi! Le organizzazioni internazionali, come la Società delle Nazioni prima e l’attuale ONU, hanno dimostrato di non essere mai state in grado di risolvere una crisi senza l’appoggio “politico-militare” di uno Stato o di una coalizione di Stati “importanti”.
Questo preambolo, per avvalorare la mia convinzione, confermata dall’esperienza vissuta anche sulla mia pelle, che se il Libano era un paese produttore di petrolio oppure ricco di minerali preziosi (uranio, oro, argento, mercurio ecc.), un intervento risolutivo dell’ONU e delle Nazioni che contano sarebbe avvenuto molto prima, forse già nel 1975. Invece, il Consiglio di Sicurezza si era limitato a redigere “risoluzioni” mai rispettate, e ad inviare una Forza di Interposizione (UNIFIL) per creare una fascia cuscinetto tra Libano e Israele, i cui compiti, tra l’altro, non sono mai stati definiti con chiarezza. Anche il tardivo intervento della Forza Multinazionale di Pace, in due tempi (1982-1984), risultava inefficace e provocava, al contrario, l’acuirsi dei contrasti interni e una strage di soldati americani e francesi. La ricchezza del Libano, risiedeva sostanzialmente in poche cose: una di carattere naturale e le altre di natura sociale, culturale e religiosa.
La ricchezza vera era l’acqua, di cui erano poveri i paesi confinanti quali Siria e Israele. Quest’ultima aveva da anni deviato il corso del fiume Litani, un corso d’acqua interamente libanese, per irrigare l’Alta Galilea (il nord di Israele). Altro fattori importanti erano: l’istinto commerciale, insito nel DNA di ogni libanese, la capacità di convivere con religioni e culture diverse, tutte cose che suscitano ancora oggi l’invidia del retrogrado ambiente arabo per questo pezzetto di mondo progredito e all’avanguardia.
Queste poche ma oggettive realtà, non avevano un interesse primario per l’Occidente, sia quello democratico sia quello comunista!
Fatta questa breve “introduzione”, tornerò a illustrare ciò che è accaduto nel 1989, l’anno del terrore. Come sempre avviene nelle cronache, i fatti più importanti saranno cadenzati dalle date in cui si sono verificati.
Dopo l’insuccesso elettorale del 22 settembre 1988 e l’accesa ma sterile disputa sulla legalità dei due Governi in carica, uno cristiano e uno musulmano subalterno diDamasco, nessuno era convinto, tanto meno i deputati, che il Parlamento fosse nelle condizioni di eleggere autonomamente un Presidente della Repubblica. La crisi istituzionale e politica era più grave dell’anno precedente. Il Libano, di fatto, era ormai diviso in tre aree distinte (vds. schizzo):
-la zona cristiana libera (850 kmq) sotto l’autorità del Governo del Gen. Aoun, che si riteneva l’unico legittimo (n.2 nel disegno);
-la zona sotto la totale influenza siriana, cioè il 70% del territorio, (Nord e centro,) a maggioranza musulmana, governata da una coalizione governativa guidata dal sunnita Selim Hoss, che si dichiarava anch’essa legittima;
-la fascia di sicurezza nel Sud (800 kmq), occupata da Israele, dalla ALS (la milizia libanese al soldo dello stato ebraico) e dall’UNIFIL (n.3, in rosso).
La ripartizione territoriale impediva alla popolazione di recarsi da parenti e amici che risiedevano in zone diverse dalla propria, raggiungibili solo con gravi rischi personali e con estenuanti ispezioni da parte di tutte le fazioni armate che controllavano le fasce di territorio via via attraversate. Le possibilità di movimento erano inoltre limitate dalla penuria di carburante. Anche le linee telefoniche erano spesso inutilizzabili per effetto dei bombardamenti; la luce era considerata un “lusso ad ore” goduto dal settore cristiano, perché la centrale termoelettrica più importante era nel suo territorio e le interruzioni erano meno frequenti, mentre l’erogazione dell’acqua era subordinata al danneggiamento delle condutture da parte di razzi e cannonate che esplodevano sul terreno.
In questo caos territoriale, politico, religioso e militare, proseguiva la guerra tra gli sciiti di Amal e dello Hizbollah, riaccesasi nel novembre del 1988, soprattutto nel Sud. Tutti gli interventi di mediazione di Siria e Iran risultavano inutili fino al 30 gennaio, data di una tregua senza che le parti raggiungessero un pieno accordo politico. I morti tra i miliziani erano stati 323 e numerosissimi i feriti. Nel frattempo, l’11 gennaio, un nave speciale noleggiata dall’Italia, imbarcava 2411 tonnellate di rifiuti tossici introdotti illegalmente in Libano l’anno precedente, all’insaputa del Governo italiano e di quello libanese, nella zona sotto il controllo delle Forze Libanesi (FL). Il sottoscritto, con una delegazione di tecnici inviati dal nostro Ministero della Sanità, aveva setacciato una vasta area alla ricerca di migliaia di fusti interrati da 200 litri, pieni di scorie tossiche, radunandoli in un’area protetta. Nel giugno del 1988, c’erano state delle manifestazioni popolari davanti alla nostra Ambasciata, per protestare contro l’inquinamento. Fortunatamente avevamo potuto dimostrare che l’introduzione era avvenuta con la complicità della milizia di Geagea, che aveva anche intascato decine di migliaia di dollari da ditte italiane e tedesche rimaste sconosciute. Le FL speravano di poter ricavare degli aggressivi chimici in un loro laboratorio, da rivendere poi all’Iraq.
E’ bene ribadire che l’Iraq era un “alleato strategico” delle FL, alle quali forniva armi pesanti e munizioni, purché le impiegassero contro i nemici storici del sunnita Saddam Hussein: i siriani e gli iraniani. Questo “chiarimento” fa capire quanto era difficile, per un osservatore, trovare il bandolo dell’intricata matassa di alleanze e di inimicizie politico-religiose. I nemici di ieri potevano essere gli amici di oggi per poi diventare i nemici di domani.
Nel gennaio del 1989, una ripresa dell’attività negoziale della Lega Araba apriva uno spiraglio di ottimismo, purtroppo di breve durata. La Lega istituiva una “Commissione dei Buoni Uffici e Aoun e Hoss erano invitati a Tunisi per un incontro che essendo però avvenuto “separatamente”, non portava a nessun risultato pratico.
Il progetto del Governo retto dal Gen. Aoun prevedeva: il ritiro immediato di tutte le forze straniere, ad eccezione dell’UNIFIL; lo scioglimento di tutte le milizie di partito,da farsi sotto il controllo dell’esercito regolare, l’attuazione di libere elezioni legislative per formare un nuovo Parlamento, in sostituzione di quello in carica dal 1972 ed eleggere, subito dopo, un Presidente della Repubblica. Allo scopo di ridurre l’autorità delle milizie, Aoun istituiva un “Centro di Controllo dei Porti illegali” disseminati lungo la costa, nei quali si effettuavano traffici di droga e armi per finanziare l’attività delle milizie.
Contemporaneamente, riapriva i passaggi lungo la “linea verde” per favorire i movimenti da una zona all’altra. Aoun, rivolgeva anche un pressante appello all’ONU e alla Lega Araba per avere un concreto sostegno al suo sforzo in favore della legalità e per difendere la sovranità del Libano.
Le “buone intenzioni” del Generale, com’era facilmente intuibile, non riscuotevano l’approvazione delle milizie di partito, a cominciare dalle potenti Forze Libanesi(FL) di Samir Geagea.
2.Il massacro della notte di San Valentino.
In questa importante data per gli innamorati, avevo deciso di invitare a cena l’Ambasciatore Mancini e un certo numero di Addetti Militari, per cementare i rapporti e per poter discutere le molte incognite della situazione in atto. Mentre osservavo compiaciuto la bella tavola apparecchiata per quattordici commensali e mi congratulavo con la mia domestica filippina, mancava la luce. La cosa non era un fatto straordinario in quel periodo, pertanto provvedevo ad attivare una illuminazione d’emergenza. La luce dei candelabri poteva conferire anche un sapore “romantico” alla cena ma la radio ricetrasmittente (accesa H24 in quanto unico mezzo di collegamento sicuro) rompeva il silenzio. Ad uno ad uno, cominciando dall’Ambasciatore, i miei ospiti si scusavano perché la situazione che si era venuta a creare in quelle ore consigliava di non muoversi dalle proprie residenze. Cosa era successo? Alcuni giorni prima, si erano verificati incidenti tra miliziani delle FL e soldati. Un militare era stato ucciso e otto feriti in uno scontro nei pressi del porto. Ma la tensione degenerava, nel tardo pomeriggio del 14, in una feroce battaglia, con l’impiego da entrambe le parti di carri armati e artiglierie, in prossimità di alcune caserme dell’Esercito e nella periferia Est della capitale. Solo nella tarda serata del 16, con la mediazione del Patriarca maronita, si otteneva un “cessate il fuoco” e i contendenti si ritiravano dai luoghi degli scontri. Il bilancio, provvisorio, era di 77 morti (14 soldati, 28 miliziani e 35 civili) e 200 feriti. Ingenti anche i danni materiali.
Le successive violazioni della tregua nei giorni successivi, spingeva Aoun a convocare Geagea per metterlo difronte alle sue responsabilità. Il Capo delle FL si “scusava” pubblicamente per quanto era successo, riconosceva la legalità del Governo presieduto dal Generale e metteva la sua potente milizia a disposizione dello Stato. Il bilancio definitivo dello scontro saliva a 100 morti e 260 feriti. L’Esercito aveva perso 8 elicotteri e 30 mezzi tra ruotati e cingolati. I danni materiali superavano i cinque milioni di dollari. Le perdite della milizia erano accuratamente tenute nascoste.
2.La “guerra di liberazione”.
I mezzi navali comandati da una sala operativa marittima (COM), entrata in funzione presso il Ministero della Difesa in Yarzéper il controllo delle acque territoriali, l’otto marzo dirottavano una petroliera diretta al porto illegale druso di Jiyé. Il leader della comunità drusa, Joumblatt, minacciava immediate rappresaglie. Tre giorni dopo, infatti, miliziani del Partito Socialista Progressista (PSP), l’organizzazione politica armata drusa, attaccavano alcune posizioni dell’Esercito mentre l’artiglieria del partito, insieme ad alcune batterie siriane, bombardava il porto di Beyrouthe quello di Jounieh. L’Esercito di Aoun rispondeva e i suoi cannoni colpivano l’aeroporto internazionale (AIB) e alcune postazioni siriane in Beyrouth Ovest. Chiuse le scuole e vari settori di attività.
Lo scontro tra l’est cristiano e l’ovest musulmano alleato della Siria era ormai inevitabile.
Il 14 marzo, alle 5.40 del mattino, l’enclave cristiana era già in fiamme. La zona cristiana della capitale era teatro di violenti bombardamenti di artiglieria, che in poche ore provocavano 43 morti e 167 feriti nella popolazione. Le prime cannonate siriane, partite da Beyrouth ovest, insieme a quelle delle milizie del PPS druso, del Partito Popolare Siriano e dei palestinesi di Abou Moussa, centravano il porto della capitale, quello di Jounieh, e il Ministero della Difesa, distruggendo l’Ufficio di Aoun. L’Esercito regolare rispondeva colpendo il villaggio di Chtaura, nella Beqa’a, dove risiedeva lo Stato Maggiore delle forze siriane in Libano.
Il Gen. Aoun, nel corso di una conferenza stampa, affermava “che nessun Paese democratico del mondo può ora chiudere gli occhi sul ruolo dei siriani in Libano” Questa è la guerra dichiarata dalla Siria al Libano. Per noi è la nostra guerra di liberazione”. Questa nuova guerra, apertamente “dichiarata” si poteva ascrivere come “internazionale” poiché coinvolgeva la Siria e parte del Libano.
Alla fine del primo giorno i morti erano 80 e 200 i feriti. Alla fine di marzo, i bombardamenti siriani indiscriminati, avevano distrutto migliaia di case e ucciso unicamente civili. Tutti gli osservatori occidentali erano d’accordo nel ritenere che la Siria conduceva un terrorismo a colpi di cannone, per fiaccare la resistenza morale e fisica della popolazione, paralizzando la vita economica e sociale. Il tiro, infatti, non era diretto su infrastrutture o postazioni militari di Aoun bensì sulle abitazioni. Nella giornata del 30, i grossi cannoni da 180 mm siriani, distruggevano la maggior parte delle riserve di carburanti del settore cristiano. Oltre al grave danno materiale ed economico, l’esplosione provocava una immensa nube tossica, contenente circa 80 tonnellate di ossido di zolfo, che ricopriva gran parte dell’enclave e della capitale, con grave pericolo di intossicazione. L’immediata conseguenza era l’arresto della fornitura di energia elettrica.
Dal 14 marzo al 20 di aprile, l’intensità dei bombardamenti e delle azioni terrestri avevano punte parossistiche, in particolare di notte per impedire il riposo.
In aggiunta alle migliaia di colpi di cannone e di razzi di tutti i calibri, le milizie musulmane, schierate con la Siria, compivano incursioni contro i civili, uccidendo a coltellate, con decapitazioni e torture.
3.Chi combatteva contro l’enclave cristiana?
Dal 14 marzo, 35.000 soldati siriani, con 200 cannoni e lanciarazzi di vario calibro, appoggiati da circa 6 mila miliziani, con quaranta cannoni, appartenenti al PSP druso, al partito Baas pro siriano, al Partito Popolare Siriano più qualche centinaio di palestinesi, esercitavano ogni forma di pressione materiale e psicologica per piegare la volontà di resistenza di Aoun e dei suoi sostenitori. Alla fine di marzo, anche Amal e Hizbollah, 5000 uomini con artiglierie e lanciarazzi, si univano ai siriani. Damasco aveva fatto affluire armi particolarmente potenti e moderne, come i cannoni pesanti da 180 mm, i cannoni da costa da 130 mm, radar asserviti, che aveva piazzato su ras Beyrouth, il promontorio della capitale dal quale si poteva colpire qualsiasi nave si accostasse ai porti cristiani e attuare un blocco navale. Tutte le armi erano di fabbricazione sovietica. Ma erano soprattutto gli enormi mortai russi da 240 mm, in grado di demolire qualsiasi costruzione in cemento armato, la cui bomba normale pesava 130 kg (36 erano di esplosivo), a fare più paura. Una bomba con spoletta a tempo, poteva penetrare diversi piani di uno stabile prima di esplodere, causando danni irreparabili al fabbricato.
Il codolo stabilizzatore dell’enorme bomba del mortaio da 240 mm.
Proietti perforanti, dirompenti, al fosforo, a frammentazione, a tempo si abbattevano a migliaia in poche decine di kmq, su abitati, ospedali, scuole, strade e sulle fonti dei servizi, causando morti e feriti e paralizzando la vita. La popolazione viveva in rifugi di fortuna e negli scantinati. I più fortunati raggiungevano con mille difficoltà parenti e amici lontani dalla zone più colpite. Mancava, oltre alla luce elettrica, anche l’acqua. Il pane scarseggiava perché i forni non potevano panificare. Le vittime superavano le 300 unità e i feriti erano oltre 800.
Il 16 aprile, grande impressione suscitava la morte dell’Ambasciatore di Spagna don Pedro Manuel d’Aristegui. Restava ucciso, durante un bombardamento, insieme al suocero e altre persone che si erano rifugiate nella cantina della sua residenza.La moglie libanese rimaneva gravemente ferita. La sua villa, piuttosto isolata, veniva colpita da tre bombe di mortaio da 240. Era difficile pensare ad un “errore di tiro” ma piuttosto credere che era invece un “obiettivo calcolato”. L’Ambasciatore, in carica dal 1984, era molto amato dai libanesi. Era sposato con una maronita e aveva sostenuto la legittimità del Governo Aoun. Nella stessa data, molti razzi e cannonate erano caduti anche nei pressi della nostra Ambasciata, come mostrano le foto scattate dalle finestre del mio Ufficio.
Palazzi prospicienti l’Ambasciata, colpiti da cannonate siriane, fotografati dal mio Ufficio
Sono numerose le immagini prese durante i bombardamenti, inviate in Italia per far palesemente “vedere” alle nostre autorità, il comportamento dei siriani nei confronti di una popolazione inerme. Nessuna reazione politica, se non la raccomandazione di “non esporsi”.
Com’era comprensibile tale atteggiamento non era condiviso da tutti noi.
Un centro commerciale vicino brucia colpito da proietti al fosforo.
Le pressioni politico-umanitarie esercitate su Damasco dal Patriarcato maronita e dalla Lega Araba ottenevano delle corte tregue tra un bombardamento e l’altro. La popolazione poteva uscire per brevi periodi dai rifugi improvvisati per rifornirsi di viveri. Erano circa centomila le cannonate cadute in un mese e mezzo di bombardamenti nell’enclave cristiana. La petroliera francese Penhors riusciva a scaricare 2000 T di carburante nella centrale termoelettrica di Jiyé (zona musulmana) e 4700 in quella di Zouk (settore cristiano), prima di essere cannoneggiata dai siriani.
Le tregue dichiarate bilateralmente molte volte non erano rispettate da Damasco. I bombardamenti riprendevano senza preavviso e questo era il pericolo maggiore.
Le Ambasciate occidentali, anche se sottoposte al fuoco e ad atti terroristici, continuavano il loro lavoro. Non si poteva abbandonare il Paese ed accettare passivamente l’atteggiamento siriano. Solo Stati Uniti e Gran Bretagna riducevano il loro personale e invitavano i connazionali a lasciare il Libano. La Diplomazia Internazionale cominciava a fare “la voce grossa” nei confronti della Lega Araba, l’organizzazione creata il 22 marzo del 1945 per curare le relazioni, gli interessi, la sovranità e l’indipendenza dei 21 Paesi arabi-musulmani aderenti. E il Libano era stato uno dei primi firmatari.
4.L’attività della Lega Araba
Dopo la fallita iniziativa di far incontrare Aoun e Hoss a Tunisi nel mese di gennaio, il 23 maggio, la Lega Araba, superate le divisioni e i contrasti politici e ideologici interni, formava un Comitato Tripartito composto dai capi di Stato di Arabia Saudita, Marocco e Algeria, con l’incarico di trovare soluzioni alla crisi libanese. Il 2agosto, la Commissione emetteva un documento ufficiale contenente delle proposte e soprattutto riconosceva “delle responsabilità” siriane nei bombardamenti indiscriminati. Nonostante questo importante riconoscimento, nei mesi estivi la storia del Paese dei Cedri continuava ad essere scritta a colpi di cannone. La vita riprendeva soltanto nelle brevi tregue ma la maggior parte del tempo la si passava “auxabris”, cioè nei rifugi di circostanza ricavati nelle cantine, nei garage, nei seminterrati. La volontà del Presidente siriano Hafezel Assad di annientare il Libano, materialmente e psicologicamente, la si riscontrava ogni giorno nelle migliaia di granate che cadevano in tutta l’enclave cristiana, nonostante gli appelli internazionali, quelli del Pontefice e della Lega Araba. Gli USA si limitavano a esercitare forti pressioni sul Comitato Tripartito, la cui autorità era riconosciuta da tutte le parti in conflitto.
5. La situazione conflittuale sul terreno.
Nel mese di maggio, nonostante la presenza in Beyrouth dei negoziatori della Lega Araba, i siriani continuavano a bombardare la zona cristiana, soprattutto con i grossi calibri. L’8 maggio, ben 5000 cannonate seminavano morte e distruzione. Il bilancio dei morti saliva a 375 mentre i feriti erano 1714. Il 16 maggio, il Mufti della Repubblica Cheikh Hassan Khaledera assassinato tramite un’auto bomba, nel settore musulmano. Khaled, era la massima autorità religiosa sunnita. Ricopriva una carica governativa e aveva l’autorità di emettere fatwa, cioè sentenze di carattere politico-religiose con valore legale. L’attentato, accuratamente preparato con 150 kg di esplosivo (altre due autobomba erano state approntate nel caso di un cambio di itinerario!), distruggeva la vettura blindata del dignitario religioso. La sua “moderazione”, manifestata in varie occasioni, non piaceva alle autorità siriane, sicuramente responsabili del delitto.
L’assassinio del Mufti della Repubblica, lo Cheikh Hassan Khaled.
Le altre due vetture imbottite di esplosivo, infatti, erano tempestivamente rimosse dai soldati siriani dimostrando di sapere esattamentedove erano ubicate, la qual cosadimostrava la responsabilità di Damasco nell’attentato. Nell’esplosione, oltre al Mufti, morivano 21 persone e ne restavano ferite 76, tra il seguito e i civili presenti.
I bombardamenti continuavano senza sosta. Erano giorni durissimi e la stessa missione italiana correva grossi rischi. Il piccolo edificio che ospitava l’Ambasciata non offriva nessuna protezione. Il mio Ufficio era sotto il tetto-terrazza, sul quale c’era la grande antenna del ponte radio con l’Italia. Un colpo, anche di piccolo calibro, avrebbe avuto effetti devastanti. Dal mese di aprile il personale del mio Ufficio, ed io stesso, passavamo la notte in un albergo a circa 300 m. di distanza dall’Ambasciata, per essere vicini al posto di lavoro e consumare un pasto caldo la sera. Era meglio non rientrare nelle nostre abitazioni perché il pericolo maggiore eranoproprio gli spostamenti all’aperto. I bombardamenti avvenivano per la maggior parte di notte ma se ne verificavano, di improvvisi, anche di giorno. La maggior parte delle vittime si aveva quando la gente era costretta a uscire allo scoperto per approvvigionarsi, per lavoro, per necessità sanitarie, per contatti, ecc.. La vita, le relazioni sociali non potevano essere interrotte anche in quell’inferno. Soprattutto i diplomatici non dovevano sospendere le proprie attività, sociali e relazionali.
Ed è stato proprio durante il soggiorno in albergo che ho versato qualche goccia del mio sangue per la causa libanese! Nella notte del 21 di maggio, un violento bombardamento aveva costretto tutti gli ospiti a scendere in fretta in uno scantinato adibito a rifugio. Le granate ed i razzi cadevano così vicini da farmi temere che anche l’Ambasciata fosse stata centrata. Durante una breve pausa, salivo nella Hall, le cui vetrate erano in frantumi, per controllare se l’edificio, distante in linea d’aria circa duecento metri, era stato colpito. Mentre ero intento ad osservare, una granata colpiva il tetto di una casa difronte all’albergo. Una pioggia di schegge incandescenti spazzava via i pochi vetri rimasti intatti e una piccola scheggia di ghisa mi colpiva al polpaccio sinistro. Sul momento, non mi accorgevo di niente perché l’esplosione mi aveva stordito. Rientrato nel rifugio, sia io sia le altre persone notavamo una vistosa macchia di sangue nella gamba del pantalone. La ferita era superficiale. Una volta estratta la piccola scheggia e medicata alla meglio, smetteva di sanguinare. Questo banale incidente era l’inizio di una serie di traversie personali, ben più gravi, nei mesi successivi. Le “disavventure” subite in seguito mi hanno convinto che tutti noi, in certe momenti, abbiamo un “Angelo Custode” che veglia e ci protegge. Ed io ne ho avuto la prova, in più di un’occasione, nel 1989 e nel 1990.
Anche se la Siria sembrava iniziare preparativi per un attacco terrestre, non ritenevo che questo fosse probabile. Gli spostamenti di truppe avevano piuttosto lo scopo di terrorizzare la popolazione e di esercitare una pressione politica sul Governo cristiano. Ogni giorno, colonne composte da circa 30 autocarri, trasportavano più di 120 T di proietti di tutti i calibri, dalla Siria a Libano, per rifornire le batterie e i depositi siriani. Avevo calcolato che i bombardamenti della regione cristiana costavano a Damasco non meno di tre milioni di dollari al giorno solo in munizioni e mi chiedevo per quanto tempo Hafezel-Assad era in grado di sostenere queste enormi spese e “chi”, eventualmente, finanziava segretamente Damasco nell’opera di distruzione. La Siria aveva cercato, senza successo, di coinvolgere nel conflitto anche le Brigate musulmane dell’Esercito libanese. Hoss e il Gen. Khatib, il Comandante di queste unità, rifiutavano però di impegnarsi. Damasco sosteneva che il loro appoggio poteva dimostrare all’opinione pubblica mondiale che erano i musulmani a voler ripristinare la sovranità libanese, con l’aiuto della Siria.
Le attività di mediazione condotte dal Triumvirato arabo (re dell’Arabia Saudita, re del Marocco, Presidente algerino) non ottenevano un rallentamento dei bombardamenti. Il 15 giugno, la petroliera greca “Pascal Of”, che cercava di forzare il blocco navale imposto da Damasco, con 3,8 milioni di litri di benzina nelle stive, veniva colpita e incendiata dai cannoni siriani caricati con proietti al fosforo. Era la sesta nave colpita dal 14 marzo. La penuria di carburante nell’enclave cristiana era gravissima e le poche scorte servivano solo ai militari. Anche le comunicazioni telefoniche con l’estero erano ormai impossibili.
In luglio riprendevano anche gli attacchi di Tsahal (l’Esercito israeliano), appoggiato dall’aviazione, nel Sud del Libano, contro obiettivi dei terroristi palestinesi e dello Hizbollah.
I bombardamenti siriani non accennavano a diminuire. Si alternavano a scontri sul terreno lungo il confine tra l’enclave cristiana e quella drusa. Per sei, nove ore al giorno, l’artiglieria siriana colpiva con migliaia di proietti principalmente le abitazioni. Ai grossi calibri (130,180 e 240 mm) era devoluto il compito di distruggere sistematicamente gli edifici governativi, i servizi, gli ospedali, i porti, i luoghi di culto (chiese, conventi), in altre parole tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza. Nel mese di agosto i bombardamenti interessavano soprattutto l’arco diurno. Si intensificavano, in quello notturno, nei fine settimana, per impedire qualsiasi forma di relax. In questo mese ho rischiato seriamente, per ben tre volte, di essere ucciso da una cannonata siriana.
Il 31 luglio, l’ONU, la Croce Rossa libanese e alcuni giornali locali riportavano una stima delle vittime dei bombardamenti sull’enclave cristiana dal 14 di marzo, data d’inizio della “guerra di liberazione”: 1000 i morti e 2169 i feriti.
continua