Non è “nepotismo della goliardia”, ma giusto riconoscimento a Flavia De Lipsis, figlia del nostro Raffaele “compagno di branda”, o quasi, per tre anni a Napoli dal 1960 al 1963, recensire un lavoro teatrale che l’ha vista interprete ormai matura delle scene.
Il tema riprende sempre, come quello dell’altro lavoro teatrale che la nostra testata ha segnalato (marzo 2016, “L’una dell’altra”), il dramma del nostro “io”, che non si rivela, ma che poi emerge e solleva i conflitti esistenziali.
Anche qui una metafora, che forse metafora non è, quella del sovrannaturale che incombe
nella vita di tutti i giorni, non solo nel luogo dove si vivono le scene, ma, forse, nella vita di tutti i giorni nella casa che noi viviamo. Chissà, la casa di tutti.
Tema inquietante ed affascinante insieme. E la destrezza di Flavia quando recita ci coinvolge, e ci accompagna nel mistero.
DARKNESS
di Mimmo D’Angelo
Vi parlo, con un bel po’ di ritardo, dello spettacolo “Darkness”, che ho visto mercoledì 22 Giugno u. s. nella magnifica Cappella Orsini di Roberto Lucifero in Roma, scritto e diretto da Roberto D’Alessandro, prodotto da Andrea Leone, assistente alla regia Domenico Cesco Franceschelli.
Il cast era composto da sei attori, tre uomini e tre donne. Attori giovani, bravi (molto) e, perché no, pure belli. Nell’Antica Grecia il topos del Kalòskai Agathos (bello e bravo/intelligente) non era un ideale estetico – o almeno non solo – ma un ideale culturale e filosofico, una sorta di sperimentazione attiva per provare a rendere accettabile la condizione umana. E tale è rimasto nella storia culturale del nostro Occidente.
In realtà in “Darkness” Riccardo Balestra che interpreta la parte di John William Polidori, medico e amico di Byron ed anch’egli poeta, fa di tutto per mostrarsi ed apparire brutto e fisicamente sgradevole, mettendo a segno un’interpretazione notevole anche da questo punto di vista.
Roberto D’Alessandro ha scritto questo dramma storico già alcuni anni fa ed il fatto che siano già state fatte quattro o cinque edizioni dell’opera (che non ho visto) è già un’indicazione della sua fortuna sulla scena.
E a proposito di dramma storico, ovvero di dramma che prende spunto da un evento storicamente avvenuto, mi piace ricordare che per me l‘artista-autore genera sempre quella che mi è piaciuto chiamare una “MetaStoria” che aiuta l’uomo ad interpretare, a capire “diversamente” una situazione che più o meno casualmente nasce da un avvenimento storico.
La “prima” si è tenuta, con fortunata e voluta coincidenza, nel duecentesimo anniversario del giorno dei fatti storici ai quali si fa riferimento, avvenuti il 21 Giugno del 1816, solstizio d’estate.
L’idea drammaturgica – efficace – dell’Autore, propone l’arrivo di una compagnia di giovani attori di notte, durante una tempesta di pioggia e vento, nella villa Diodati, sul lago di Ginevra, dove si svolsero gli eventi.
E’ appunto il duecentesimo anniversario dei tre giorni drammatici, incantati, sfrenati, demoniaci che videro la nascita del “Frankenstein” di Mary Shelley, e “Il Vampiro” di Polidori.
Il programma del gruppo è appunto quello di riproporre e ricreare l’atmosfera e gli eventi di quei giorni, interpretando, ciascuno di essi, i personaggi storici.
La notte, gli eventi atmosferici, la tetra ma affascinante bellezza della villa e del paesaggio in riva al lago di Ginevra, sembrano essersi accordati per una ricostruzione incredibilmente verosimile, accompagnata dalle stesse sostanze allucinogene in voga ai tempi di Lord Byron : una soluzione di laudano che viene trangugiata senza risparmio da tutti i nuovi arrivati. Tutto sembra condurre verso un abisso di mistero che incute una sorta di paura sorda ed inconscia che si cerca di scacciare con l’ilarità forzata o isterica dei protagonisti/attori mentre si cambiano d’abito. Tolgono gli inzuppati abiti dei giovani d’oggi per indossare i costumi storici dei personaggi.
E per i costumi, molto belli, accuratamente studiati nei tagli e nei tessuti, una menzione con lode va fatta al giovane e bravo costumista Simone Luciani.
Lascio al piacere del prossimo pubblico dello spettacolo la curiosità dello svolgersi del dramma – che vale la pena apprezzare. Spenderò invece un po’ di tempo e le mie parole scritte sulla messa in scena, la regia e l’interpretazione degli attori.
Quest’ultima edizione nasce, come ho accennato, con un’efficace incipit drammaturgico e si sviluppa mantenendo costantemente viva l’attenzione sia per il susseguirsi degli eventi, ad un ritmo serrato al punto giusto, – quelli storici si intrecciano in parte con quelli personali – sia per alcuni voluti e ricercati “effetti teatrali” che funzionano in quanto ben disegnati e realizzati.
Anche il finale – altro punto critico e periglioso d’ogni opera – che si svolge subito dopo una scena orgiastica con tutti gli attori, mantiene il livello drammatico dell’insieme.
Roberto D’Alessandro autore e regista ha dunque colto nel segno, con bravura ed esperienza, in entrambi i ruoli.
Come tutte le questioni che riguardano il teatro, anche quella dell’autore/regista è più che dibattuta : i litigiosi addetti ai lavori del teatro non si uccidono su quest’argomento forse perché il sangue già scorre abbondantemente e fittiziamente sulle scene.
A mio giudizio se l’autore è in grado di fare la regia – non è così scontato – questo doppio ruolo è auspicabile, efficiente ed efficace. Così spetta anche a me il mio Crucifige.
Tutti gli attori hanno ruoli e parti importanti pur se ruotano intorno alla figura di Lord Byron, che fu effettivamente anche l’autore ed organizzatore dell’iniziativa artisticamente, sensualmente e vitalmente estrema.
Non è “nepotismo della goliardia”, ma giusto riconoscimento a Flavia De Lipsis, figlia del nostro Raffaele, “compagno di branda”, o quasi, per tre anni a Napoli dal 1960 al 1963, recensire un lavoro teatrale che l’ha vista interprete ormai matura delle scene.
Il tema riprende sempre, come quello dell’altro lavoro teatrale che la nostra testata ha segnalato (marzo 2016, “L’una dell’altra”), il dramma del nostro “io”, che non si rivela, ma che poi emerge e solleva i conflitti esistenziali.
Anche qui una metafora, che forse metafora non è, quella del sovrannaturale che incombe
nella vita di tutti i giorni, non solo nel luogo dove si vivono le scene, ma, forse, nella vita di tutti i giorni nella casa che noi viviamo. Chissà, la casa di tutti.
Tema inquietante ed affascinante insieme. E la destrezza di Flavia quando recita ci coinvolge, e ci accompagna nel mistero.
Nendaz 25 Agosto 2016