I Cappelloni insegnano agli Anziani che il tempo non passa
ma continua e fortifica l’immanenza dei sentimenti
Ricordi …
di Cristina Olmisano
“Ti ricordi quando ci sedevamo qui?” la domanda venne pronunciata indicando i gradini che portavano alle classi e con un’intonazione che ricordava quella di un bambino emozionato.
“Si, me lo ricordo” la voce che rispose neanche sembrava la mia, non era né felice né emozionata ma aveva il sapore della distanza velata di nostalgia.
“Scusate ragazzi, devo fare una cosa” parole pronunciate senza neanche rendermene conto.
I miei passi cominciarono a rimbombare fra quelle mura così spesse, così antiche, così piene di ricordi …
La finestra aperta alla fine del corridoio faceva entrare calda luce e brezza di mare, ma non era lì che volevo andare. Mi diressi automaticamente verso l’ultima classe a destra ripercorrendo quella stessa strada che avevo fatto centinaia di volte. A fianco alla porta chiusa campeggiava la familiare etichetta con la scritta ‘scientifico B’ incisa sulla lastra dorata come i miei ricordi erano rimasti incisi sulla mia anima e che, inesorabilmente, mi investirono nel momento stesso in cui aprii quella porta sbiadita. Quello che mi ritrovavo davanti poteva sembrare niente di eccezionale se fossero stati occhi estranei a guardare, ma ai miei occhi quella classe vuota, incredibilmente disordinata, piena di libri e armadietti sbilenchi si animava di voci lontane, ricordi che prendevano forma e che portavano con loro gioie, pianti, scherzi, litigi, ma anche amicizia e coraggio. Ricordi che da sbiaditi e opachi si trasformavano improvvisamente in forme, voci, colori, luci sempre più reali.
Il mio banco era sempre lì, al solito posto, testimone di tutti gli avvenimenti che stavo rivivendo uno dopo l’altro. Ad un tratto la mia attenzione fu attratta dalla finestra ancora chiusa. Il ricordo di ciò che nascondeva dietro provocò l’irresistibile impulso di dare uno sguardo. La finestra si aprì con un cigolio assordante. La stanza venne inondata da una potente luce abbagliante e da una brezza impetuosa. Ci volle qualche attimo per fare in modo che i miei occhi si abituassero al bagliore, ma alla fine il Golfo di Napoli mi si presentò in tutta la sua bellezza.
Gli occhidi Giovanni Rodriguez, detto Giua’, a Napoli dal 1948
Una barca a vela, resa minuscola dalla lontananza, stava solcando le acque del mare calmo inondato da varie tonalità di blu. Sembrava una piccola macchiolina bianca su una tavolozza di un pittore ossessionato dai colori del mare. Il rumore delle onde troppo lontane era coperto dal frastuono del vento come se, per gelosia, quest’ultimo volesse rubare la scena alle acque che accarezzavano la terra della città di Napoli, la quale si opponeva ad esse mostrandosi nelle sue mille tonalità calde. Dava come l’impressione che la città tentasse di avvolgere quell’immenso mare di tranquillità profonde in un abbraccio appassionato. Il cielo limpido sovrastava il tutto come un dominatore implacabile e noncurante di ciò che avveniva sotto di lui, mentre il sole, suo fedele compagno, controllava vigile il mondo da lui percepito come una silenziosa distesa. I suoi raggi sfioravano l’acqua e sembravano giocare scherzosamente con le onde.
Quella danza di colori aveva effetti contrastanti sull’animo umano. La sua visione provocava entusiasmo ma allo stesso tempo trasmetteva tranquillità, quale delle due sensazioni far prevalere era solo a discrezione dell’osservatore. In quel momento per me fu la nostalgia ad imporsi su tutte le altre. Quanto tempo era passato? Non troppo in verità ma sembrava avessi attraversato mille tempeste in quel breve tratto della mia vita. I cambiamenti si erano susseguiti uno dopo l’altro, senza neanche che me ne accorgessi, investendomi come uragani improvvisi, ma alla fine erano sempre passate e quella ragazza davanti alla finestra ero sempre io.
Sempre gli occhi di Giovanni Rodriguez, detto Giua’, a Napoli dal 1948
Sentii voci chiamarmi da lontano, era ora di andare. Staccando con fatica gli occhi da quella immensità di luci mi diressi verso la porta. Prima di varcarla e chiuderla alle mie spalle mi girai per dare un ultimo sguardo a quella che era stata la mia classe.
“Grazie” questo fu il mio unico saluto sussurrato.
Posillipo dalle camerate e dalle aule di Cristina: la luce continua